Napoleone B(u)onaparte, Benito Mussolini ed il destino occulto dell’Italia.
Napoleon Bonaparte, Benito Mussolini and the Search of Italy’s Occult Destiny.

NAPOLEONE BONAPARTE E BENITO MUSSOLINI: il filo rosso giacobino e le origini rivoluzionarie francesi del fascismo.
                                                     
Les Faisceaux du licteur de combat
                          Napoléon et Mussolini: Un Fil Rouge Révolutionnaire Jacobin

Il Fascio Littorio come simbolo di perenne Libertà; Les Faisceaux du licteur comme symboles de éternel Liberté; The Lictorial Fasces as symbol of everlasting Freedom.

The Lictorial Fasces’ source since Etruscan Civilization and Roman Empire; from Robespierre, Napoleon and Abraham Lincoln  to Mussolini. The American Revolution (Independence War, 1775-1782), the French Revolution (1789-1815), the Fascist Revolution (1914-1945): continuity’s red thread of a political and ideological history.
Napoleon B(u)onaparte and Benito Mussolini:
 
dal giacobinismo spiritualista rivoluzionario francese alla via al cesarismo democratico. La democrazia totalitaria giacobina di Jean Jacques Rousseau.
Jacques Louis David e Mario Sironi: ovvero la liturgia dell’armonico collettivo.
 Maximilien de Robespierre ed il Duce italico massimalista: la coscienza del Terzo Stato e la coscienza proletaria di Mussolini.
1794-1919: la Montagna parlamentare giacobina, la Festa dell’Essere Supremo (8 giugno 1794) ed il destino occulto dell’Italia Novecentesca (la Terza Roma).
Alessandro De Felice invita a riflettere sul richiamo spregiativo del termine <<repubblichino>> che lega la Repubblica Rivoluzionaria Francese di fine ‘700 con la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) del 1943-1945. Il termine <<repubblichino>> sembra essere stato foggiato, infelicemente, da Vittorio Alfieri per indicare i fautori giacobini italiani come Filippo Buonarroti della Rivoluzione Francese tra ‘700-‘800. Alfieri scrisse <<Che belle fughe che hanno fatto i nostri repubblichini dal 1° marzo al 26>>; il termine viene ripreso alla fine del 1943 da Umberto Calosso in una trasmissione da Radio Londra per indicare gli aderenti alla Repubblica Sociale Italiana e divenuto poi d’uso comune tra la pubblicistica giornalistica ed universitaria volta ad ignorare la continuità del repubblicanesimo mussoliniano con quello mazziniano, il cui anello di congiunzione è la filosofia di Giovanni Gentile (non a caso assassinato a Firenze dai partigiani comunisti il 15 aprile 1944). 
Lo stesso Napoleone Bonaparte scrive nel 1797: <<La misera Italia è da lungo tempo cancellata dal novero delle potenze europee. Se gli italiani d’oggi saranno degni di ricuperare i loro diritti e di darsi un governo libero, si vedrà un giorno la loro patria figurare gloriosamente tra le potenze del mondo; ma non dimenticate che le leggi non sono niente senza la forza. Vada il nostro primo sguardo all’organizzazione militare…Siete in posizione più felice di quella dei francesi: potete arrivare alla libertà senza rivoluzione e delitti…L’unità che lega le diverse parti della repubblica Cispadana servirà di modello all’unione tra tutte le classi di cittadini; e il frutto della corrispondenza tra i principi e i sentimenti vostri difesi dal coraggio, sarà la libertà, la repubblica e la prosperità>> (Napoleone I° Bonaparte, Lettera del 1° gennaio 1797 al Presidente della Repubblica Cispadana, in Correspondance de Napoléon, II, n. 1349, p. 223)

 

Iconografia del Fascio Littorio nella Rivoluzione Francese (Lictorial Fasces’ Iconography during the French Revolution).

Esiste un piano più grande
Alessandro il Macedone e Napoleone Bonaparte:
Il grande segreto della geopolitica imperiale.

Con la spedizione bonapartista in Egitto, il Direttorio parigino è convinto di essersi sbarazzato di Napoleone, ritenuto un rivale irritante ed incontenibile. Ma il target dichiarato da Bonaparte è quello di tagliare all’Inghilterra la rotta per l’India. L’obiettivo segreto più forte è, però, la sua sete di gloria: <<Devo cercarla ad Oriente, tutte le grandi fame vengono da lì>>. Seguendo le orme di Alessandro il Macedone – Giulio Cesare e Gesù Cristo limitarono volutamente e misteriosamente il loro raggio d’azione – Napoleone vuole conquistare il mondo, ma prima deve conquistare l’Oriente, rovesciare i Turchi, impadronirsi di Costantinopoli, prendere l’Europa alle spalle aprendo la strada alla caduta dell’India, della Cina e del mondo. Dirà Napoleone: <<Il mio dispotismo! Ma lo storico dimostrerà che la dittatura era necessaria mentre l’insubordinazione e l’anarchia, i grandi disordini, erano ancora sulla soglia. Potevo essere solamente un Washington incoronato sul novero dei monarchi vinti…Ma ciò non si poteva raggiungere che attraverso la dittatura universale: tendevo a questa. In che sta dunque il mio crimine>>? (Las Cases, Mémorial, I° vol., Edit. Garnier, p. 308).<<Uno dei miei pensieri maggiori era raccogliere, unire i popoli geograficamente uniti, ma disgiunti, sminuzzati dalle rivoluzioni e dalla politica…Volevo farne un solo corpo nazionale>> (ibid., IV° vol., p. 152). <<Allora forse, alla luce della cultura universale, si potrebbe pensare ad un congresso tipo americano o consiglio delle Amfizionie greche per la grande famiglia europea, e quali orizzonti di forza, di gloria, di felicità e di benessere s’aprirebbero allora!>> (ibid., IV° vol., p. 211).
<<Tutto ciò era già vicino, tanto vicino, come mai lo era stato: bastava allungare la mano. E per ben due volte egli l’aveva stesa; due tentativi di <<rinnovamento>> universale furono fatti da lui: il primo dal sud, attraverso l’Inghilterra, di carattere repubblicano, il secondo dal nord, attraverso la Russia di carattere monarchico. Tutti e due tendevano allo stesso scopo e si sarebbero compiuti con fermezza, moderazione, sincerità. E quante disgrazie a noi note ed ignote, avrebbe evitato la sventurata Europa. Mai è sorto un progetto più grande e benefico per la civiltà, e mai un progetto è stato più prossimo alla realizzazione>> (Dimitri Merežkovskij, Napoleone. L’uomo, la sua vita e la sua storia, Gherardo Casini Editore, Milano, pp. 39-40). Afferma in proposito il Generale di Ajaccio: <<Il mio scacco dipese non dagli uomini ma dagli elementi; il mare m’aveva perduto al sud, al nord l’incendio di Mosca ed il gelo. Sicché l’acqua, l’aria, il fuoco, tutta la natura si rivelò ostile al rinnovamento universale, che la stessa natura esigeva. Inesplicabili sono i misteri della Provvidenza!>> (Las Cases, Mémorial, cit., vol. I°, pp. 530-531). <<Dal fondatore della prima monarchia universale, il monarca babilonese Sarganissar, Sargon l’Antico (verso il 2.800 a.C.) fino alla Terza Internazionale, la storia universale è un agitarsi di codesti segmenti serpigni, lo strepito di codeste ossa morte. Appena l’umanità comincia ad aver coscienza di sé, già è tormentata da codesta pena: l’inestinguibile sete dell’universalità. Le antiche monarchie universali – Egitto, Babilonia, Assiria, Media, Persia, Macedonia – sono una serie di tentativi a soddisfare codesta sete, organizzarsi ad ogni costo universalmente. La stessa idea unisce le due parti dell’umanità: quella pagana e quella cristiana; solo nell’universalità elleno-romana poté realizzarsi il Cristianesimo. Non a caso il Figlio dell’Uomo nacque nel territorio universale di Roma, sotto l’egida mondiale del Cesare Romano. L’opera universale iniziata da Roma pagana è continuata da Roma cristiana fino ai nostri giorni, fino alla Rivoluzione (francese, N.d.R.). La Rivoluzione s’è scostata in tutto dal Cristianesimo salvo che nell’universalità. <<La Rivoluzione francese era in fin dei conti null’altro che l’ultima trasformazione e reincarnazione della stessa formula antico-romana dell’unità universale>>, dice Dostojewski ma non conclude; l’ultima incarnazione dell’idea universale non era la Rivoluzione per sé stessa, non il caos, ma il suo dominatore, Napoleone. L’opera per l’universalità è la principale, si può dire unica di tutta la sua vita. Se non si è capito questo, non si è capito nulla di essa. Tutti gli atti, i pensieri, i sentimenti di lui sono diretti da e per essa>> (Dimitri Merežkovskij, Napoleone. L’uomo, la sua vita e la sua storia, cit., p. 37). <<La sete del dominio universale è connaturata in lui: si può variarla, trattenerla, ma non distruggerla>> indovina il Metternich (Lacour-Gayet, Napoléon, III° vol., Hachette, Paris, p. 440). <<Per capire fino in fondo che cosa vuol dire per Napoleone l’universalità, bisogna intendere che essa non è un’astrazione in lui, ma la porta nel sangue, nella carne; per lui essa non è cosa da venire, ma che è già dentro di lui stesso; bisogna intendere che Napoleone non è un uomo con un’idea universale, ma l’uomo universale o, parlando il linguaggio di Dostojevski, <<un uomo venuto troppo presto>>. In questo come in molte altre cose egli è <<un essere che non ha suoi simili>>, secondo la profonda impressione di M.me de Staël. Egli è contemporaneo non del suo tempo, ma di quell’infinitamente lontano passato, quando <<su tutta la terra c’era una sola lingua, un solo dialetto>>, una sola umanità; o dell’infinitamente lontano futuro, quando vi sarà <<un solo gregge ed un solo pastore>>. Egli è quasi la creatura d’un altro creato; troppo antica e troppo nuova; ante-diluviale o apocalittica. L’uomo senza patria, e non per qualche lacuna interiore, ma per esuberanza. Nella giovinezza egli amava la sua terra natale, la Corsica, e voleva essere <<patriota>>, imitando l’eroe còrso Paoli, o i classici eroi di Plutarco. Non gli riuscì che malamente e presto i compatrioti lo espulsero, proclamandolo <<nemico della patria>>. Egli stesso l’avverte dentro di sé e se ne stupisce: sino alla fine dell’esistenza ignora sinceramente quello che si sia>> (Dimitri Merežkovskij, Napoleone. L’uomo, la sua vita e la sua storia, cit., p. 41). <<Sono piuttosto italiano o toscano, che còrso>> (Gourgaud, Journal inédit, II° vol., Flammarion Edit., p. 345). <<Volevo a tutti i costi essere francese. Quando mi chiamavano <<il corso>> era per me la più sensibile delle offese>> (ibid., p. 170).
 Hitler si concentrerà sulla Russia, sfiorando, solo sfiorando, il Caucaso, ma ignorando il Medio Oriente e la mezzaluna babilonese, nonostante i timidi rapporti con il mondo arabo ed iracheno negli anni ’30-’40. La idea del Bonaparte non è originale. Il piano napoleonico, anti-turco ed anti-inglese, è già stato architettato nel 1587 da Papa Sisto V°, che delinea il progetto all’ambasciatore veneziano Giovanni Gritti. Secondo il Pontefice, con un po’ di denaro e settanta galeoni, si potrebbe mandare un esercito in Egitto e, dopo la presa di Alessandria, si potrebbe fortificarla e dominare l’intero Egitto. <<Si potrebbero tacitare gli abitanti e farli diventare cristiani, forse persino con l’aiuto degli arabi che sono nemici dei turchi>> (Peter Tompkins, La magia degli obelischi, traduzione di Aldo Magagnino e Valentina Lagna, Marco Tropea Editore, Milano, 2001, p. 164, dall’originale The Magic of Obelisks). <<Sisto aveva anche avuto l’idea geniale di creare il canale di Suez, ma temeva che la differenza di livello delle acque del mar Rosso avrebbe potuto causare una pericolosa inondazione del delta>> (ibid.).
L’occupazione francese del territorio egiziano, prima di Napoleone, viene concepita da un altro studioso di geroglifici, il filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, <<lo scopritore del calcolo differenziale e integrale, che aveva suggerito l’idea a Luigi XIV. Leibniz (al quale era stata offerta la custodia della biblioteca Vaticana, ma aveva rifiutato perché avrebbe dovuto abbracciare la fede cattolica), come Zoëga, non era d’accordo con l’opinione di Kircher, secondo la quale i geroglifici potessero contenere sapienza esoterica. Riteneva che le iscrizioni sugli obelischi fossero semplicemente “testi storici che commemoravano eventi e vittorie”. Napoleone, essendo un libero pensatore, era più ottimista riguardo alla soluzione dell’enigma, e gli amici massoni di Parigi lo avevano convinto che questo fosse essenziale per una corretta comprensione della storia politica. Per fare questo lavoro aveva accuratamente messo insieme circa centocinquanta scienziati e artisti, molti dei quali massoni, reclutati dalla Académie des Inscriptions, tra cui insigni studiosi come Gaspard Monge, Étienne Geoffroy Saint-Hilaire, Edmé François Jomard, Claude Louis Berthollet e Jean-Baptiste Joseph Fourier. Che gli obelischi fossero nei pensieri di Napoleone era evidente dall’aneddoto secondo cui sua moglie Giuseppina, anch’ella massone, andò a salutarlo alla partenza da Tolone e gli chiese, mentre lo baciava, di portarle un obelisco da Tebe, anche piccolo. Il 19 maggio 1798 l’armata di Napoleone salpò con 13 navi da combattimento, 14 fregate, 72 corvette e quasi 400 navi trasporto che ospitavano quattromila soldati. Nella sua cabina Napoleone aveva portato la Bibbia, il Corano, i Veda, un libro di mitologia antica, Lo spirito delle leggi di Montesquieu, traduzioni di Tucidide, Plutarco, Tacito, Livio e diversi libri di comandanti militari come Turenne, Condé, Luxembourg e Marlborough. Come letture meno impegnative aveva portato con sé i Viaggi di Cook e quaranta romanzi inglesi>> (ibid., pp. 164-165). <<Soldati, dall’alto di quelle Piramidi quaranta secoli vi contemplano!>>, disse Napoleone ai suoi militi sotto le mura del Cairo prima di scontrarsi coi Mamelucchi del vecchio pascià Murad-Bey. <<Io credo – scriverà  Bonaparte a Sant’Elena –, cosa orribile a dirsi, che la distruzione della flotta (francese, N.d.R.) ad Abukir sia stata una fortuna, altrimenti l’esercito si sarebbe rimbarcato>> (Gourgaud, Journal inédit, cit., I° vol., p. 51). Lo Stato Maggiore francese, in effetti, ha tramato una congiura contro il còrso: prendere Napoleone, portarlo a viva forza ad Alessandria, costringerlo a trattare con Londra e – restituito alla corona inglese l’Egitto – ottenere il libero passaggio in patria. La congiura anti-napoleonica non riesce solo perché viene scoperta in tempo. <<Una chimera era stata distrutta; ne sorse un’altra anche più vasta: con un esercito di trentamila uomini, tagliato fuori dalla propria base di operazione, attraversare la Siria e la Mesopotamia, giungere in India, sulle tracce di Alessandro il Grande, sollevare l’Asia intera e a capo di essa, con un esercito innumerevole, passando da Costantinopoli, arrivare al tergo dell’Europa per fondare un dominio universale sopra l’Oriente e l’Occidente. Per giorni interi, sdraiato sopra le carte geografiche, Bonaparte misurava con un compasso la via dell’India. Avrà ricordato come essendo tenente d’artiglieria, nella povera stanzetta delle caserme d’Auxonne, al lume scarso d’una candela di sego, sognava <<il Faraone Sésostris, il quale nel 1491 prima di Cristo, aveva conquistato tutta l’Asia e raggiunte le Indie per mare e per terra?>> (Dimitri Merežkovskij, Napoleone. L’uomo, la sua vita e la sua storia, cit., pp. 251-252). <<In Egitto mi sentivo sbarazzato dalle strettoie d’una civiltà opprimente. Mi vedevo sulla via dell’Asia, seduto su d’un elefante, con un turbante in testa ed un volume di Alcorano nuovo, da me composto, in mano. Fu il periodo migliore della mia vita, perché il più ideale>> (Madame de Rémusat, Mémoires, I° vol., p. 274). <<Ma eran proprio tanto folli i suoi sogni come sembrerebbero? Il generale Marmont, il quale conosceva bene lo stato di cose nell’Oriente d’allora ed il quale non può essere sospetto di simpatia per Napoleone, assicura che data l’assoluta mancanza di tecnica militare in Asia, il sopravvento della qualità sulla quantità avrebbe potuto dare ad un piccolo contingente europeo delle possibilità innumerevoli: <<avrebbe potuto incunearsi nel corpo dell’antico continente come un ferro acuto nella cera molle>> (Marmont, Mémoires, II, p. 11). <<Sognavo e vedevo tutti i mezzi atti ad eseguire quel che sognavo>>, assicura Bonaparte stesso. Sognava un reclutamento incalcolabile di fellahs e di indigeni neri dell’Africa. Già stava per spedire una missione alla Mecca ed una lettera ad un Sultano il cui territorio confinava con le Indie. Le difficoltà morali erano superiori anche a quelle materiali: per liberarsi realmente dalle strettoie della civiltà europea cristiana, bisognava liberarsi dal cristianesimo stesso. Vi era egli pronto o solo fingeva di esserlo? Ad ogni modo ripeteva con imprudenza lo scherzo frivolo d’un frivolo re (Dimitri Merežkovskij, Napoleone. L’uomo, la sua vita e la sua storia, cit., pp. 252-253): <<Parigi vale una messa>> (Gourgaud,  Journal inédit, II vol., p. 435).
Napoleone, al pari di Alessandro il Grande e Giulio Cesare, è consapevole della grande miscela mediterranea portatrice naturale del pensiero meticcio. Il suo asse concettuale di riferimento attraversa il mondo europeo, affrontando, provocatorio, filosofia e scienza della politica, cultura sociale ed arte. Stiamo parlando della strategia imperiale internazionalista di Uomini che non erano affetti dal provincialismo e settarismo contemporanei. Uomini che vedevano nell’ibridazione culturale l’antidoto contro stereotipie conoscitive e luoghi comuni banalizzanti. Non l’appartenenza ad un territorio, ad un luogo, ad una lingua, ma il loro superamento risulta dunque l’obiettivo dell’antropologia e della deterritorializzazione imperiale. Incroci ed interazioni vanno dunque sempre verso <<l’altro>>. Pensiamo a personaggi come Settimio Severo (Lucio Pertinace), imperatore romano africano, nato a Leptis Magna nel 146 d.C. e morto ad Eburacum nel 211 d.C., appartenente a famiglia dell’ordine equestre e venuto, dalla natìa Libia, per la prima volta a Roma diciottenne iniziando con Marco Aurelio una brillante carriera che gli procura, nel 190 d.C., la nomina a console prima, e governatore dopo, della Pannonia Superiore. Ed è appunto mentre regge questa provincia che, dopo l’uccisione di Pertinace, viene proclamato imperatore a Carnunto dalle sue legioni il 13 aprile 193. Settimio Severo ha il merito di conservare l’integrità dell’Impero Romano, difendendone i confini dai Barbari e preservandolo dalla disgregazione interna, ed inoltre ha il merito di immettere nell’amministrazione statale romano-imperiale forze nuove provenienti dalle più diverse regioni, sopprimendo antichi privilegi. Il meticciato imperiale appare quindi, in questa estesa ottica, come una coniugazione dinamica, mediante cui conquistatori e conquistati tendono all’equilibrio ideale. Dal crogiolo mediterraneo e medio-orientale, ha origine quel meticciato primigenio, che nutre in epoche e modi diversi l’afflato universalistico di Alessandro Magno e Napoleone Bonaparte, ma pure dell’internazionalismo islamico [uguaglianza e fratellanza, perché <<tra i Musulmani liberi Maometto pose uguaglianza assoluta>> (Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Tirelli, Catania, 1939, ora ripubblicata da Gruppo Editoriale Brancato, Catania, 2003, p. 29)]. Il conquistatore macedone sogna, infatti, la fusione delle diversità etniche in un sodalizio cosmopolita. Primo protagonista del divenire sincretico, in bilico tra avventure oniriche e conflitti reali, propri della <<diversitudine>> e della polifonia del pensiero meticcio, è Ulisse, figura mitica ed antieroe del viaggio umano senza frontiere. Paradossalmente, un razzista molto articolato, ancorché sconosciuto come accurato ed immediato conoscitore delle psicologie etniche, che risponde al nome di Adolf Hitler, avrà una impostazione eurasiatica del dominio mondiale, e non certo da piccolo leghista regionalista europeo. <<Le opere di Schopenauer e di Nietzsche, piene di elogi per il pensiero orientale, spinsero il giovane Hitler ad uno studio attento delle religioni d’Oriente e dello yoga. Va detto a suo onore che non cadde negli stessi errori contenuti nella stragrande maggioranza dei libri teosofici pubblicati nell’ultimo decennio del secolo XIX e nel primo del XX. I teosofi, salvo nei rari casi d’individui dotati di autentica intuizione, vedevano poca o punta differenza tra l’uomo antico e l’uomo moderno, per quanto riguardava le facoltà e la coscienza. Hitler non cadde in questo errore e si rifiutò incrollabilmente d’interpretare in modo esclusivamente intellettuale opere grandiose come il Rîg-Veda, le Upanishad, la Bhagavad-Gîta, lo Zend-Avesta, il Libro dei Morti egizio e molti altri. Egli rifiutò di accettare la difesa convinzione che queste opere, ricche di penetranti intuizioni sui rapporti fra il Cosmo, la Terra e l’Uomo, fossero nate da facoltà corrispondenti, sia pure alla lontana, alla forma moderna d’intelletto. Inoltre, comprese che la conoscenza in essi contenuta era assai più antica di quanto si ritenesse comunemente, perché il loro contenuto era stato fissato quando le facoltà da cui traevano origine erano già in uno stato di atrofia. Insomma, sin da allora Adolf Hitler cominciava a considerare il processo storico in termini di una condizione perpetuamente mutevole della coscienza umana. Seguendo l’ascesa e la caduta delle antiche civiltà, egli notò che il loro succedersi nella storia era contrassegnato dalla perdita percettibile delle facoltà spirituali. E cominciò a chiedersi se tale atrofia della visione spirituale poteva essere legata alla declinante magia del sangue razziale, in modo che le due influenze, insieme, causassero l’emergere e l’affermarsi del pensiero materialista. Giunse così alla conclusione che con il passare del tempo l’umanità era entrata in una specie di galleria del sonno, tanto che le antiche <<età dell’oro>>, in cui l’uomo aveva goduto un rapporto magico con l’Universo, erano state dimenticate: l’unica prova di quelle condizioni sublimi era nascosta in miti e leggende in cui nessuno credeva più>> (Trevor Ravenscroft, La lancia del destino. Il potere occulto della lancia che penetrò nel fianco di Cristo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989, p. 55, tradotto dall’originale The Spear of Destiny, Neville Spearman Publishers, London,1972).
 Come formulazioni dell’egualitarismo giacobino e montagnardo della Rivoluzione Francese (che Napoleone vede e vive dall’interno anche come amico di Maximilien ed Augustin Robespierre), le stesse idee macedoni e bonapartiste sanciscono la superiorità della Cosmopolis sulla Polis. Come Giulio Cesare, Napoleone ed Hitler, Alessandro il Grande non fa affidamento sulla flotta macedone e greca: la sua naturale propensione per una politica <<continentale>> lo porta a rinunciare alla guerra per mare. Ma è Alessandro il Grande, il Cosmocrator,  ad affermare per primo la superiorità della cosmopolis sulla polis, negando la distinzione politica, linguistica e culturale fra <<straniero>> e <<cittadino>>, <<esterno>> ed <<interno>>, anticipando quindi la <<grande miscela>> mediterranea napoleonica. Dice Benito Mussolini al giornalista ebreo Emil Ludwig nel 1932: <<Naturalmente non esiste più una razza pura, nemmeno quella ebrea. Ma appunto da felici mescolanze deriva spesso forza e bellezza a una nazione. Razza: questo è un sentimento; il 95% è sentimento. Io non crederò che si possa provare biologicamente che una razza sia più o meno pura. Quelli che proclamano nobile la razza germanica sono per combinazione tutti non germanici: Gobineau francese, Chamberlain inglese, Woltmann israelita, Lapouge nuovamente francese: Chamberlain è arrivato perfino a chiamare Roma la capitale del Caos. Una cosa simile da noi non succederà mai. Il professore al quale Lei accennava, era un poeta. L’orgoglio nazionale non ha affatto bisogno dei delirî di razza. L’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nelle Università, nell’esercito, nelle banche. Tutta una serie sono generali; comandante della Sardegna è il generale Modena, un altro generale è nell’artiglieria>> (Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano, 2000, pp. 54-55). Chiede quindi Ludwig al Duce a proposito di Napoleone Bonaparte: <<Nonostante la precedente conversazione, non mi è chiaro se Lei miri veramente a lui come a un esempio o lo consideri piuttosto come un ammonimento>>. <<Egli – continua Ludwig, riferendosi a Mussolini – si appoggiò tutto all’indietro, fece il suo viso più scuro e disse con voce trattenuta: <<Come ammonimento. Io non ho mai preso Napoleone come modello, poiché non sono affatto da paragonare a lui. La sua attività fu tutt’altra dalla mia. Egli ha concluso una rivoluzione, io ne ho cominciata una. La sua vita mi ha indicati gli errori ai quali difficilmente si sfugge, cioè (contandoli sulle dita): nepotismo, lotta col Papa, mancanza del senso della Finanza e dell’Economia. Egli vide quasi solamente che dopo le sue vittorie la rendita saliva {scendeva}. [Ciò era tutto. E poi>>, egli fece una pausa, si avanzò nella luce della lampada, mi lanciò un segno ironico con gli occhi e continuò: <<e poi ho imparato qualche cosa di grande da lui. Egli mi ha preventivamente distrutto tutte le illusioni che mi sarei potuto fare sopra la fedeltà degli uomini. Su questo punto io sono a prova di bomba]>>. <<Mi guardai bene – scrive Emil Ludwig – dall’oltrepassare con le mie domande quel punto, che solamente egli stesso poteva toccare; ritornai alla Storia, e chiesi come se non lo sapessi: <<Quale è stata la causa della sua rovina? I professori sostengono che sia stata l’Inghilterra>>. <<Stupidaggine>> disse egli. <<Ei si rovinò, come Lei lo dimostra, per l’intimo contrasto del suo carattere,  contrasto per il quale ognuno alla fine si rovina. Prendere la corona! Fondare una dinastia! Come primo console, sì, allora fu grande! Con l’impero però cominciò la decadenza. Beethoven ebbe ragione di ritrattare la dedica a lui della sua Eroica. La corona lo costrinse a sempre nuove guerre. Veda Cromwell in confronto: un grande pensiero, potenza dello Stato, e tuttavia nessuna guerra!>>. <<Io lo avevo così attirato – prosegue Ludwig – a uno dei più importanti argomenti>>: <<Esiste allora imperialismo senza impero?>>. <<Esistono una mezza dozzina di imperialismi>> rispose egli (Mussolini, N.d.R.) con voce viva. <<Un impero non è perciò veramente necessario, esso è persino pericoloso. Quanto più esso si estende, tanto più perde la sua forza organica. Ma la tendenza all’imperialismo è una delle forze elementari della natura umana, appunto come la volontà della potenza. Ora abbiamo l’imperialismo del dollaro, un’altra volta un imperialismo religioso, un’altra ancora un imperialismo artistico. Ad ogni modo sono sintomi della forza vitale dell’uomo. Finché uno vive è imperialista. Cessa di esserlo con la morte>>.  In questo momento Mussolini appariva indiavolatamente napoleonico, e allora assomiglia singolarmente all’incisione del Lefèvre del 1815. La tensione dei suoi lineamenti cessò, mutò il tono, quando concluse: <<Naturalmente ogni impero ha il suo zenit. Poiché esso è una creazione di uomini di eccezione, le cause del tramonto esistono già in lui. Come tutte le eccezioni, ha qualche cosa di effimero in sé. E ciò può durare uno o due secoli o dieci anni. Volontà di potenza>>. <<Sostenerlo soltanto con le guerre?>> chiesi io. <<Affatto soltanto [Non soltanto con esse]>> rispose, e sedette in avanti, alla sua maniera, appoggiando le braccia, come se parlasse da una cattedra. <<I troni hanno bisogno di guerre, per sostenersi. Le dittature assolutamente non sempre. Ve ne sono alcune, le quali possono farne a meno. La potenza di una nazione è il risultato di una quantità di elementi, non soltanto di quello militare. Però, devo aggiungere, la posizione d’una nazione fino ad oggi, nel concetto comune, è stata fissata dalla sua forza nella guerra. Fino ad oggi la forza militare è ritenuta come la sintesi di tutte le forze nazionali>>. <<Fino a ieri>> dissi io. <<E domani?>>. <<Domani!>> ripeté egli scetticamente. <<Un criterio sicuro essa non è più, questo è vero. Perciò per domani è necessario un arbitrato fra gli Stati. La unione almeno di un continente. Dopo la unione degli Stati, si deve spingersi verso la unione dei continenti, ma ciò è in Europa maledettamente {straordinariamente} difficile, perché in Europa ogni popolo ha un volto speciale, lingua, costumi, tipi. Una certa percentuale, diciamo x, rimane in ogni popolo completamente originale e si oppone per prima alla unione. In America è indubbiamente più facile unire quarantotto Stati, con la stessa lingua, e senza una storia secolare>>. <<Ma non c’è in ogni popolo>> chiesi io nuovamente <<un’altra certa percentuale y, che è puramente europea>>. <<Questa percentuale – risponde Mussolini – c’è all’infuori della potenza di ogni nazione. Napoleone ha voluto una Europa. Questo era il suo grande orgoglio, di unirla. Oggi è forse maggiormente possibile, ma soltanto intendendo europeo in un determinato senso, come fu l’aspirazione di Carlomagno e di Carlo V, dall’Atlantico sino agli Urali>>>> (ibid., pp. 43-47). Ancora a proposito dei Napoleone B(u)onaparte, Mussolini dice che <<erano contro di lui i giacobini, perché egli aveva soffocata la rivoluzione, i legittimisti, perché egli era un usurpatore, il clero, a cagione della sua lotta contro il Papa. Gli unici che lo amavano erano quei del popolino. Questo, sotto di lui, aveva da mangiare, ed è inoltre più aperto alla gloria. Perché la gloria non si può capire logicamente; essa è una cosa del {appartiene al} sentimento>>. <<Lei parla di Napoleone quasi con simpatia>> dissi io. <<Il Suo rispetto per lui allora non è diminuito durante il Suo governo, dove Lei poteva un po’ controllarlo?>>. <<È aumentato>>. <<Come giovane generale>> dissi <<egli una volta ha detto che un trono vuoto lo attirava a sedervisi sopra. Che pensa Lei di ciò?>>. Mussolini fece il suo volto ironico, spalancando gli occhi alla sua maniera, ma insieme sorridendo: <<Nel frattempo>> disse <<i troni hanno notevolmente diminuita la loro forza fascinatrice>>. <<Veramente>> risposi <<nessuno vuol più essere Re. Quando io ultimamente dissi a Fuad dell’Egitto che i re dovrebbero essere amatie i dittatori temuti, egli esclamò: “Quanto volentieri vorrei essere dittatore! C’è nella Storia un usurpatore, che tuttavia sia stato amato?”>>. Mussolini, nel cui volto, quando non lo vuole nascondere, si preannuncia il tono di ogni risposta, divenne nuovamente serio, allentò la sua forza di volontà (e con ciò egli apparve più giovane), e disse dopo una pausa, e tuttavia ancora indugiando: <<Forse Cesare. L’uccisione di Cesare fu una disgrazia per l’umanità>>. Poi aggiunse sottovoce: <<Io amo Cesare. Egli solo riuniva in sé la volontà del guerriero con l’ingegno del saggio. In fondo era un filosofo, che contemplava tutto sub specie aeternitas. Sì, egli amava la gloria, ma il suo orgoglio non lo divideva dalla umanità>> (ibid., pp. 46-48).
<<Ultimamente Ella ha innalzato Cesare, ma posto Gesù sopra di lui. Non mi sbaglio>>, dice Ludwig al Duce dell’Italia proletaria e fascista. <<Cesare viene dopo di lui>> rispose egli convinto. <<Gesù è il più grande [<<Gesù è il più grande, Cesare viene dopo di lui>> rispose egli convinto>>]. S’immagini! Scatenare {Iniziare} un movimento {una religione} che dura da duemila anni! Quattrocento milioni di seguaci, fra cui poeti {e geni} e filosofi! Questo esempio resta in eterno! E si è irradiato da qui. È solo strano che proprio i più umani degli imperatori romani hanno perseguitato più violentemente i cristiani>>. <<Quando vidi ieri a cavallo, sul Campidoglio, Marco Aurelio>>, dice Ludwig a Mussolini, <<mi venne in mente una sua parola che io vidi in circostanze strane, cioè scritta come motto di Cecil Rhodes a Città del Capo: “Ricordati che sei un romano.  Non scordarti che sei anche un imperatore”>>. [Mussolini ascoltò queste parole con stupore, come fecero comprendere i suoi occhi spalancati. Poi ripeté a bassa voce: <<Non scordarti che sei anche un imperatore>>. E si mise a ridere, piano e inquietante]>> (ibid., pp. 140-141).

 

 

La terza Roma di D’Annunzio e Mussolini

Il 29 ottobre 1906 Ermete Zacconi mette in scena la tragedia di Gabriele D’Annunzio Più che l’amore. Ambientazione africana; Corrado Brando, il protagonista, alla stregua di Don Chisciotte, racconta a Rudu (un umile pastore sardo che sembra Sancio Pancia), un’esperienza in terra d’Africa: <<Nell’isolano persiste il tipo primordiale dell’uomo. Costui vive fuori d’ogni ordine sociale. Non è all’estremo, ma all’origine della sua stirpe. Egli non comprende ma sente, non conosce ma indovina. Sopra tutto, adora e obbedisce. La sua servitù è cieca e sublime. (….) Ti ricordi la felicità di quella sera? A un tratto vedemmo un leone, aveva lasciato sul posto la metà d’una gazzella che tu cuocesti al tuo modo sardo nel calore della fossa cavata in terra. Dopo, prendesti la tua launedda e sonasti un’aria della tua Planaria su le tre canne dispari. E gli arabi di Massaua ascoltavano in cerchio immobili come se il tuo canto non fosse straniero, ma venisse dal fondo della loro infanzia>>. Secondo Ruggero Jacobbi, D’Annunzio crede al mito del superuomo, poiché sa che un eroe – affinché sia grande, un vero eroe tragico – deve morire, <<se no che eroe è? Se vince la battaglia e tutti gli battono le mani, è una parata militare; se alla fine si sposa, è una commedia>>. <<Insomma – scrive il Maurizi – è solo l’Artista a possedere il Verbo, e le creature sulla scena più che personaggi sono megafoni dell’autore: è lui il superuomo, e non un qualunque suo personaggio. Chinato davanti all’opera ed al suo artefice, il pubblico può solo contemplare e applaudire. O, all’occorrenza, potrà seguirlo in qualche impresa, magari al motto di <<ardisco non ordisco>>. Sulla propria carta da lettera D’Annunzio riportò il motto lanciato nel maggio 1919 in un discorso contro le condizioni di pace che volevano negare Fiume all’Italia>> (Sante Maurizi, I <<selvatici sardi>> e i guai d’un vate, <<il manifesto>>, quotidiano comunista, Anno XXXVII, n. 1, martedì 2 gennaio 2007, p. 18).

<<All’inizio di <<Più che l’amore>> la didascalia di ambientazione recita: <<Il luogo dell’azione è la terza Roma>>. È una definizione entrata nell’immaginario nazionale del Risorgimento, una Roma che Giuseppe Mazzini vagheggiava dopo la prima, quella <<della Repubblica conclusa dai Cesari>>, e dopo quella dello splendore del potere temporale dei papi. La terza sarebbe stata quella dell’Unità, <<la Roma del Popolo Italico>>, che in seguito il fascismo avrebbe definito anche come luogo dell’immaginario architettonico e della espansione urbanistica. Corrado Brando è architetto, pensa che un giorno potrebbe <<forse divenire un costruttore di città su terre di conquista>> ma non è ancora il momento: <<un popolo ha l’architettura che meritano la robustezza delle sue ossa e la nobiltà della sua fronte. Nell’arco romano non senti tu la prominenza del sopracciglio consolare? Se tu fossi sostenuto e sollevato dalla piena vita della tua gente, Roma esprimerebbe anche una volta, col linguaggio lapideo che solo le conviene, la sua volontà di ricongiungersi al Mare che solo di lei è degno>>. All’Eur, sul frontone del Salone delle Fontane, si legge ancora oggi una frase tratta da un discorso di Mussolini del 1925: <<la terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno>>. Nel 1905 di <<Più che l’amore>> tutto ciò era ancora da venire, ma D’Annunzio in qualche modo tracciò anche quella strada verso il mare>> (Sante Maurizi, La <<Terza Roma>>, <<il manifesto>>, ivi).